Se fino a pochi decenni fa la schizofrenia veniva descritta come una malattia cerebrale degenerativa (ipotizzando l’esistenza di un unico processo biologico sottostante), le evidenze scientifiche attuali indicano una sindrome dai confini più complessi e variegati, che è possibile prevenire e ripensare in termini di “recovery”. Lo psichiatra e psicoanalista Harry Stuck Sullivan scriveva nel 1927: “Sono certo che molti casi incipienti [di schizofrenia] potrebbero essere trattati e risolti ben prima che il contatto con la realtà sia irrimediabile sospeso e una lunga permanenza nelle strutture istituzionali diventi necessaria”. A distanza di quasi un secolo, di quali strumenti disponiamo per raggiungere tale obiettivo?
A seguito della scoperta dei neurolettici (un fortunato caso di serendipità), la psicofarmacologia è oggi l’approccio dominante nel trattamento delle psicosi acute e svolge un ruolo significativo per molti pazienti nella prevenzione delle ricadute. Tuttavia diversi studi hanno dimostrato che i farmaci antipsicotici, se utilizzati come monoterapia a lungo termine, possono portare a una progressiva compromissione del funzionamento psicosociale dei pazienti, indipendentemente dalla stabilizzazione dei sintomi. Il movimento della recovery, un cambiamento di paradigma avvenuto a metà degli anni Settanta, ha indicato un obiettivo più ambizioso della semplice riduzione farmacologica dei sintomi delle psicosi croniche, ponendo i pazienti/utenti dei servizi di salute mentale al centro del loro percorso di cura con la legittima aspettativa di riacquistare capacità funzionali per il lavoro e le relazioni interpersonali.
Nonostante la psicoterapia delle psicosi, integrata con altri approcci al trattamento, possa candidarsi per affrontare questa aspettativa, un atteggiamento pessimistico ha sempre ostacolato il suo impiego nella pratica clinica. Freud non credeva che i pazienti psicotici potessero instaurare un transfert analizzabile e dunque non aveva fiducia nell’efficacia della psicoanalisi per il trattamento della psicosi. Con alcune eccezioni, la comunità psicoanalitica ha adottato l’atteggiamento di Freud e ha abbandonato la cura dei malati mentali gravi. Le scuole di specializzazione in psichiatria hanno seguito l’esempio, lasciando poco spazio all’insegnamento della psicoterapia nei programmi di formazione (Kimhy et al., 2013). Un’eccezione importante riguarda la psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT), anche se la maggior parte dei suoi sviluppi si sono concentrati sui disturbi d’ansia e depressivi – nonostante uno dei primi report CBT fosse proprio su un caso di psicosi (Beck, 1952). Attualmente un adattamento specifico dell’approccio CBT per i disturbi psicotici (CBT-P) viene raccomandato nelle linee guida internazionali, nonostante le evidenze meta-analitiche sulla sua efficacia siano controverse (Jones et al., 2018).
Questo seminario propone una rilettura clinica e scientifica degli interventi psicoterapeutici attualmente impiegati per il trattamento dei disturbi psicotici e della loro efficacia, anche attraverso una riflessione sulle radici storico-culturali del pregiudizio che li ha contraddistinti. Inoltre, verrà illustrato un modello integrato di psicoterapia (Garrett, 2021) che combina l’approccio cognitivo-comportamentale con la psicoterapia psicodinamica in due fasi sequenziali: una fase iniziale in cui vengono principalmente utilizzate tecniche CBT per esaminare la falsità letterale delle idee deliranti e una seconda in cui si utilizza un approccio psicodinamico per esaminare la verità figurativa (il significato personale specifico) contenuta nei sintomi psicotici. Questo modello sembra presentare le potenzialità per superare sia i limiti del modello CBT-P, eccessivamente focalizzato su specifici contenuti cognitivi piuttosto che sugli aspetti fenomenologici nucleari dei disturbi psicotici (anomalie dell’esperienza soggettiva, tra cui diminuito senso di presenza di un nucleo interiore, iper-riflessività e diminuito senso di ownership e agency dell’esperienza e dell’azione), sia quelli del modello psicodinamico classico, che tende a porre un’attenzione eccessiva e precoce all’interpretazione dei significati inconsci dei sintomi a discapito dei meccanismi cognitivi del paziente e dell’esperienza cosciente dei suoi sintomi.
Infine, verranno presentati alcuni paradigmi clinici – originariamente sviluppati in Australia e poi esportati nel resto del mondo – per la diagnosi e l’intervento precoce nei disturbi psicotici, con un’enfasi particolare sul clinical staging model, in cui la malattia psicotica viene considerata come un continuum stadiale, consentendo di guidare la logica e il timing degli interventi nella convinzione che i trattamenti offerti nelle fasi pre-morbose o prodromiche della malattia siano potenzialmente più sicuri, accettabili ed efficaci di quelli offerti nelle fasi successive del decorso del disturbo. Poiché questi paradigmi di intervento si rivolgono principalmente a giovani pazienti considerati a rischio di sviluppare un disturbo psicotico in un periodo di tempo relativamente breve (quindi potenzialmente in una fase prodromica del disturbo), il trattamento d’elezione è necessariamente psicosociale: la ricerca in questo ambito ha quindi portato a un rinnovato interesse per gli interventi psicoterapeutici non solo per trattare le psicosi, ma anche per prevenirne l’insorgenza negli individui che presentano manifestazioni cliniche attenuate o sottosoglia diagnostica.